Il risarcimento del danno per violazione del regime di successione di contratti di lavoro a tempo determinato
Premessa
Nell’ordinamento lavoristico l’assunzione a tempo determinato costituisce un eccezione giustificata da specifiche e temporanee esigenze estranee alle normali esigenze lavorative del datore. Il legislatore disciplina rigorosamente l’apponibilità del termine nei contratti di lavoro, prevedendo una durata massima del rapporto di lavoro a tempo determinato di mesi trentasei. Con il recente d. L. 87/2018, cd. Decreto Dignità, il Legislatore è intervenuto sul previgente d. Lgs. 81/2017, cd. Jobs Act, riformando la disciplina sull’apponibilità del termine. A differenza del previgente assetto normativo, infatti, il rapporto di lavoro a termine può avere una durata massima complessiva di mesi ventiquattro, con un massimo di quattro proroghe. Tuttavia è prevista la possibilità che tale limite venga esteso a trentasei mesi, tramite contrattazione collettiva ovvero tramite la stipula di un nuovo contratto dalla durata massima di dodici mesi.
Sono fatte salve le disposizioni vigenti in materia di successione dei contratti. Brevemente si consideri che tale fenomeno consente all’operatore giuridico di considerare come unitario un rapporto di lavoro a tempo determinato scandito in pluralità di contratti, anche a distanza di tempo. Affinché tale fenomeno possa verificarsi è necessaria la ricorrenza di due requisiti: (1) identità di soggetti; (2) identità di mansioni.
Verificati tali requisiti, il lavoratore potrà impugnare l’ultimo contratto chiedendo di dichiararsene la nullità parziale, limitatamente al termine apposto, di modo che il contratto venga convertito a tempo indeterminato, fatta salva la possibilità di richiedere il risarcimento del danno conseguente alla violazione delle norme imperative in materia di apposizione del termine e successione dei contratti nel tempo.
La predetta disciplina è applicabile anche al pubblico impiego, fatte presente le seguenti precisazione: (1) benché la disciplina generale sul p.i. è contenuta nel d. Lgs. 165/2001, il termine di durata massima del rapporto di lavoro a tempo determinato nel p.u. segue la disciplina dettata per il lavoro privato, trovando applicazione l’art. 19 del d. Lgs. 81/2015, con la conseguenza che anche il p.i. risulta interessato dalla recente novella; (2) gli elementi di differenza tra le normative riguardano le conseguenze sanzionatorie della violazione di tali norme, essendo previsto il risarcimento del danno e, per converso, escluso testualmente la conversione del rapporto di lavoro; (3) mentre per i rapporti di lavoro privati, il d. Lgs. 163/2010 prevede, oltre che la possibilità di chiedere il risarcimento del danno, la possibilità di ottenere un indennizzo ex art. 32, co. 5, tale misura indennitaria non è prevista, testualmente, per il p.i.
Il danno patrimoniale da violazione del regime imperativo di apponibilità del termine e successione dei contratti nel tempo
Fatti tali brevi premesse, ci soffermiamo sul punto n.3 su indicato, atteso che la misura indennitaria è stata estesa anche al pubblico impiego, per effetto di un escamotage interpretativo di lodevolissimo pregio che ha trovato avvallo autorevole nella giurisprudenza comunitaria, riservandoci l’analisi degli aspetti non patrimoniali in separata sede.
Secondo una condivisibile impostazione Giurisprudenziale, il danno patrimoniale prodotto dalla violazione delle norme imperative in materia di successione dei contratti a termine, può configurarsi come perdita di chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato conseguente, in senso causalistico, alla situazione di precarizzazione determinata.
La sentenza a Sezioni Unite, n. 5072/2016
Come recentemente osservato in giurisprudenza, la circostanza che a livello di normativa interna la prova del danno patrimoniale da perdita di chance, gravante sul lavoratore, si caratterizzi per difficoltà probatorie, finisce con l’evidenziare, sull’onda lunga dell’interpretazione adeguatrice, il deficit di adeguamento della normativa interna a quella comunitaria, da cui questa è derivata, e quindi la violazione di quest’ultima, la quale, ancorché pacificamente non self-executive, “opererebbe non di meno come parametro interposto ex art. 117, primo comma, Cost. e potrebbe inficiare la legittimità costituzionale della norma interna (art. 36, comma 5. d.lgs. n. 165/2001) che tale pretesa risarcitoria disciplina in termini comunitariamente inadeguati nel caso di abuso nella successione di contratti a termine” (Cass. Civ., Sez. Un., sent, 15 marzo 2016 n.5072).
Ciò, evidentemente, salvo non fosse possibile, con interpretazione adeguatrice, rinvenire nell’ordinamento nazionale un regime risarcitorio di tale abuso che soddisfi quell’esigenza di tutela del lavoratore evidenziata dalla Corte di Giustizia.
A tal riguardo la giurisprudenza della Suprema Corte era già pervenuta ad individuare “la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, [nel] art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 che prevede – per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato – che il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604” (in tal senso Cass. Civ., sent. 21 agosto 2013, n. 19371).
Tale interpretazione analogica sarebbe giustificata, quindi, dalle richieste promanate dalla giurisprudenza comunitaria di individuare misure dissuasive e di rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, ed è proprio in quest’ottica che, quindi, il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.
Viene in tal modo viene enfatizzata la portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria “sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario” (ex multis Cass. Civ., sent. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n.13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, e la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36. comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva 1999/70/CE e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale.
A ciò si aggiunga che “per il lavoratore pubblico l’indennizzo ex art. 32, comma 5, è in chiave agevolativa di maggior tutela nel senso che, in quella misura, risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore. (…) L’indennità ex art. 32, comma 5, quindi, per il dipendente pubblico che subisca l’abuso del ricorso al contratto a tempo determinato ad opera di una pubblica amministrazione, va ad innestarsi, nella disciplina del rapporto, in chiave agevolativa dell’onere probatorio con la conseguenza che il lavoratore ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede l’interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32 comma 5”.
Per tutti i precedenti motivi le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinalo da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5 legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’ art. 8 legge 15 luglio 1966. n. 604” (Cass. Civ., sez. un., sent. 15 marzo 2016 n.5072).
L’avvallo della giurisprudenza comunitaria
Tale conclusione è avvalorata anche dalla soluzione elaborata dalla Corte di Lussemburgo nella Causa C-494/16 del 7 marzo 2018, nel merito all’incidente di pregiudizialità sollevato da questo Tribunale, stabilendo che “occorre risolvere le questioni proposte dichiarando che la clausola 5 dell’accordo quadro non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un ‘indennità compresa tra 2,5 e 10 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno” fornendo prova mediante il ricorso a presunzioni semplici ai sensi dell’art. 2972 c.c..
dott. Salvatore Tartaro