In fatto ed in diritto: un caso pratico. Il diritto di veduta nell'ambito dei rapporti di vicinato tra condomini.
Il caso:
Tizio è proprietario di due appartamenti siti al quarto piano del grattacielo Beta. A causa della crisi economica, Tizio decidere di vendere uno dei due appartamenti a Caia e di reinvestire parte del ricavato nella realizzazione di una veranda chiusa nella terrazza di sua esclusiva proprietà. Una volta ultimati i lavori e completata l’opera, Caia rileva che il manufatto le impedisce di godere della vista sul parco, che era uno dei motivi per che l’avevano spinta ad acquistare l’immobile. Ella, quindi, chiede al vicino Tizio di demolire la costruzione o, quantomeno, di ridurla in maniera tale da rispettare le distanze legali in materia di vedute. Tizio, dal canto suo, si rifiuta sul presupposto che si applichi, nel caso di specie, la normativa inerente all’utilizzo della cosa comune, poiché i due immobili insistono nel medesimo condominio.
Caia, dunque, si rivolge al sottoscritto per ottenere parere motivato in ordine alla vicenda esposta.
Soluzione prospettata:
Al fine di prospettare una soluzione al quesito sottoposto occorre, in via preliminare, esaminare il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
In ordine alla tesi sostenuta da Tizio, proprietario di uno dei due appartamenti siti all’ultimo piano del grattacielo Beta, il quale ha costruito una veranda sulla terrazza di sua esclusiva proprietà, viene in rilievo la disciplina del condominio, sotto lo specifico profilo della costruzione di nuove opere su parti dell’edificio di proprietà esclusiva di uno dei condomini di cui all’art. 1122 cod. civ..
In ordine alla tesi sostenuta da Caia, occorrerà discutere dei limiti legali allo ius aedificandi in materia di vedute, premesse brevi considerazioni sulla materia, di cui all’art. 907 cod. civ..
Cominciando da tale profilo occorre, giustappunto, premettere che un discorso intorno alla normativa in tema di distanze legali tra costruzione, non può prescindere dalla preventiva definizione del concetto di luci e vedute.
Dal tenore del combinato disposto ex artt. 900 e 902, co. 1 cod. civ. è possibile dedurre le seguenti indicazioni di massima.
Le aperture sulle pareti sono, sic e sempliciter, luci, quando finalizzate a garantire il passaggio di luce ed aria, mentre devono qualificarsi come vedute ove consentano al proprietario ad affacciarsi sul fondo finitimo e “guardare frontalmente, obliquamente e lateralmente”.
Nell’impianto codicistico non esiste un tertium genus di aperture sul fondo finitimo atteso che, allorquando le aperture non abbiano le caratteristiche di una veduta, devono considerarsi luci irregolari.
La veduta, dunque, deve garantire al proprietario non solo la cd. inspectio in alienum, consistente nella possibilità di guardare sul fondo altrui, ma anche la cd. prospectio, consistente nella possibilità di affacciarsi sul fondo vicino, godendo di una visione mobile e globale (cfr. Cass. Civ., sent. 19/04/2016, n. 7705; Cass. Civ., sent. 10/01/2017, n. 346).
Appare lapalissiano evidenziare, dunque, che il legislatore ha imposto al soggetto che intende costruire nuove opere o costruzione, di rispettare una distanza minima di metri tre dal fondo finitimo al fine di preservare il diritto del proprietario di godere di aria, luce e vedute.
Dalla complessiva trama codicistica si desume che il diritto di veduta costituisce estrinsecazione del diritto di proprietà solo ove siano rispettate le distanze di cui all’art. 905 cod. civ..
Diversamente, qualora la veduta sia aperta sul fondo finitimo in violazione dell’art. 905 cod. civ., si verserà nell’ambito degli ius in re aliena, in particolare nell’ambito delle servitù.
Le cd. servitutis non aedificandi, sono servitù contrattuali, ricondotte, in genere, nell’ambito di applicazione dell’art. 1061 cod. civ. disciplinante le servitù non apparenti, salvo che non siano presenti strutture o opere finalizzate a consentire l’inspectio e la prospectio.
In ambedue le circostanze, l’esercizio del diritto di veduta postula la limitazione dello ius aedificandi spettante al proprietario del fondo finitimo.
Controversa è l’applicazione dell’art. 907 cod. civ., in materia di vedute aperte in violazione dell’art. 905 cod. civ..
Secondo un orientamento minoritario, infatti, il titolare di una servitutis non aedificandi non potrebbe esigere il rispetto dell’art. 907 cod. civ., in quanto la compressione del suo diritto di edificazione incontra l’unico limite nell’art. 1067 cod. civ., ben potendo, dunque, eseguire sulla sua proprietà tutte le innovazioni che con esso non contrastino, indipendentemente dalla violazione dell’art. 907 cod. civ. (cfr. Cass. civ. 3.07.1999 n. 6897; Cass. civ. 28.08.1986 n. 5269).
Conseguenza di tale impostazione è che la violazione delle distanze di cui all’art. 907 cod. civ., dunque, potrà essere fatta valere solo se il diritto di veduta costituisce estrinsecazione delle facoltà connesse al diritto di proprietà.
Di contro, ove la nuova costruzione fosse lesiva di una servitutis non aedeficandi di natura contrattuale, ai fini dell’esperimento dei rimedi possessori o petitori non rileva sic et sempliciter la violazione delle distanze legali, occorrendo valutare se via sia stato effettivo pregiudizio per l’esercizio del diritto di veduta.
La giurisprudenza maggioritaria e più recente, tuttavia, pare aver aderito all’orientamento contrario che ritiene l’art. 907 cod. civ. applicabile a qualsiasi veduta preesistente alla nuova costruzione.
Ciò posto, il proprietario del fondo dominante potrà esercitare il rimedio nunciatorio della denuncia di nuova opera di cui all’art. 1171 cod. civ., ove la domanda venga introdotta prima del completamento della nuova costruzione.
Potrà, in alternativa, esperire il rimedio possessorio di cui all’art. 1168 cod. civ. (cd. azione di reintegrazione), entro un anno dal momento di inizio dei lavori della nuova costruzione, in quanto, pur trattandosi di spoglio posto in essere con una pluralità di azioni, è evidente la sussistenza di una cornice teleologicamente unitaria tale per cui ciascuno degli atti posti in essere per la realizzazione della struttura deve considerarsi la prosecuzione degli atti precedenti (cfr. cass. Civ., sent. 29/10/2003, n. 16239).
Il rimedio possessorio è certamente obbligato ove la servitù di veduta non risulti dal titolo ma costituisca estrinsecazione di una mera circostanza di fatto, consistente nella sussistenza di aperture che consentono l’inspectio e la prospectio sul fondo altrui, a distanza inferiore di quella di cui all’art. 905 cod. civ., non essendo tale situazione effettuale suscettibile di tutela petitoria (cfr. Cass. Civ., sent. 22/05/2009, n. 11956).
Ove, per converso, si tratti di un diritto di veduta iure proprietatis o iure servitutis, sarà esperibile l’azione ordinaria volta all’accertamento negativo del diritto del proprietario del fondo servente di mantenere un manufatto a distanza inferiore a quella indicata all’art. 907 cod. civ..
Tale azione, dunque, qualificata quale “actio negatoria servitutis”, è rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della sua proprietà, suscettibili di dar luogo alla costituzione di servitù, con la decorrenza del termine per usucapire. (cfr. Cass. Civ., sent. 3/10/2007, n. 20769)
Va dato atto del fatto alla tutela petitoria, a differenza di quella possessoria, in ragione dell’assolutezza del diritto leso, non risulta applicabile l’art. 2058, co. 2 cod. civ., il quale consente al Giudicante, al fronte dell’eccessiva onerosità del rimedio restitutorio, di applicare la tutela risarcitoria in luogo dell’ordine di restituzione in pristino dello stato dei luoghi (cfr. Cass. Civ., sent. 17/02/2012, n. 2359).
In concorso con la tutela restitutoria, al proprietario è concesso richiedere il risarimento del danno in relazione al pregiudizio subito per effetto dell’abusiva imposizione di una servitù sul suo fondo che ha determinato una temporanea riduzione del valore dell’immobile (cfr. Cass. Civ., sent. 18/07/2013, n. 17635).
Giova ricordare, altresì, che la domanda diretta accertare la violazione della normativa in materia distanze legali deve essere trascritta ai sensi dell’art. 2653 cod. civ. in quanto, trattandosi di domanda tesa a salvaguardare il diritto di proprietà dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato, pertanto qualificabile quale “actio negatoria servitutis”, deve ritenersi riconducibile all’alveo delle domande che hanno effetti interruttivi del decorso del termine ad usucapionem (cfr. Cass. Civ., sez. Un., sent. 12/06/2006, n. 13523).
Il “condominio” negli edifici è una comunione speciale, come suggerito dalla collocazione topografica nel titolo VII del Libro III del codice, connotata per la sussistenza di una relazione di accessorietà tra il bene comune e le singole unità di proprietà esclusiva dei condomini.
Tale relazione può sussistere in ragione di un collegamento materiale, consistente in un rapporto effettuale di contiguità strutturale implicante l’indivisibilità delle singole unità immobiliari dalla cosa comune, ovvero in ragione di un collegamento funzionale, o di utilità, per la cui sussistenza non è necessario alcun nesso di contiguità strutturale il quale, anche ove sia rinvenibile, può essere vanificato senza pregiudizio né per le singole proprietà, né per la cosa comune.
Il legislatore ha riconosciuto al singolo condomino il diritto di costruire nuove opere nelle unità immobiliari di proprietà esclusiva, ovvero su parti dell’edificio che, benché rientranti nell’elenco di cui all’art. 1117 cod. civ., siano state attribuite all’uso esclusivo di uno dei condomini.
Tale facoltà è legittimamente esercitata ove la nuova costruzione non rechi pregiudizio alla stabilità, sicurezza o decoro architettonico dell’edificio (cfr. art. 2122 cod. civ.).
Alla luce di quanto sin qui esposto, la questione giuridica da dirimere verte nello stabilire se, in tema di controversie insorte tra condomini in ordine alla lesione del diritto di veduta attribuito ad uno di questi, perpetrato tramite la costruzione di nuove opere su proprietà esclusiva dell’altro, si applichino le norme speciali dettate in materia di condominio, ovvero quelle generali in tema di distanze legali.
Pare, anzitutto, il caso di ricordare che, in seno alla giurisprudenza di legittimità si è registrata la tendenza di allocare i rapporti tra condomini, o tra questi ed il condominio, ove vengano in rilievo interessi estranei al rapporto di condominialità, al di fuori del perimetro della relazione qualificata tra compartecipi alla comunione.
In altri termini, ove vengano in rilievo interessi estranei all’utilizzazione della res commune, in genere la giurisprudenza tende a qualificare i condomini quali terzi, tanto nei confronti degli altri comproprietari, quanto nei confronti del condominio.
Ciò posto se, da un lato, non può sottacersi il fatto che la giurisprudenza abbia tradizionalmente riproposto il principio di inoperatività delle norme sulle distanze legali nell’ambito del condominio, dall’altro, va evidenziato come tale principio sia stato fortemente ridimensionato da quella giurisprudenza più recente che, in materia di controversie sulla violazione delle distanze legali perpetrata dal condominio, in danno del condomino, ha attribuito al giudice di merito la facoltà di stabilire quale normativa fosse applicabile, essendo necessario prendere le mosse da imprescindibili valutazioni di carattere effettuale.
Più precisamente, tali norme sarebbero applicabili solo ove compatibili alle caratteristiche strutturali dello stato dei luoghi di talché, l’applicazione dell’una o dell’altra, sarebbe rimessa a valutazioni di merito insuscettibili di sindacato di legittimità ove correttamente motivate (cfr. Cass. Civ., sent. 30/03/2000, n. 3891). Sempre che, è bene ricordarlo, la nuova costruzione costituisca estrinsecazione del normale uso della cosa, venendo, a contrario, in rilievo le norme in tema di innovazioni (cfr. Cass. Civ., sent. 02/08/2001, n. 10569; Cass. Civ., sent. 25/10/2003, n. 490).
Per converso, ove il conflitto sulle distanze sia insorto tra diritti promanati dalle proprietà esclusive di ciascuno dei condomini, la normativa da applicare sarà quella di cui all’art. 907 cod. civ.. e non quella di cui all’art. 1122 cod. civ. che, invece, si troverebbe applicazione ove il pregiudizio lamentato fosse inerente all’utilizzo della cosa comune (cfr. Cass. Civ., sent. 27/02/2019, n. 5732).
Alla luce delle argomentazioni esposte si ritiene che la tesi sostenuta da Tizio sia infondata in quanto anche nell’ambito di un edificio condominiale si applica la normativa generale in tema di distanze legali, ove gli interessi coinvolti non abbiano inerenza alla cosa comune.
Caia, dunque, potrà agire in giudizio per tutelare il diritto di veduta. Certamente non potrà esperire l’azione nunciativa di cui all’art. 1171 cod. civ., avendo lamentato la lesione del suo diritto solo al seguito dell’ultimazione della veranda.
Può certamente esperire l’azione di reintegrazione di cui all’art. 1168 cod. civ., chiedendo la restituzione in pristino ed il risarcimento per la perdita del possesso, nelle forme di cui all’art. 703 ss. cod. proc. civ.
Ove il diritto di veduta vantato da Caia sia corollario dello ius in re propria o di una servitù contrattuale, questa potrà esperire un’azione petitoria di accertamento negativo del diritto di Tizio di mantenere il manufatto a distanza inferiore a quella prevista dall’art. 907 cod. civ..
Nell’ambito di codesta azione, Caia potrà richiedere, in applicazione dell’art. 2058 cod. civ., la riduzione in pristino dello stato dei luoghi unitamente al risarcimento del danno.
dott. Salvatore Tartaro