La teorica della causalità civile alla luce delle Sez. Un. n. 581/2008.

In ambito civilistico la definizione della nozione di causalità è rimessa al contributo dell’operatore giuridico ancor più di quanto ciò non sia avvenuto con riferimento al rapporto eziologico nel rito penale.

Infatti, mentre il rapporto causale, inteso quale profilo della componente materiale del reato trova una sistematica collocazione nel codice penale, e segnatamente agli artt. 40 e 41 c.p., nella sistematica del codice civile la nozione di nesso causale non trova un puntuale riscontro expressis verbis.

Occorre precisare, in via preliminare, che nell’ordinamento civilistico il nesso di causalità non costituisce un dato unitario e quindi applicabile in ogni ipotesi di responsabilità, bensì si atteggia diversamente in funzione del criterio di imputazione.

Al riguardo si consideri che al di fuori della responsabilità ex delictu che presuppone pedissequamente l’accertamento del rapporto eziologico tra la condotta e l’evento, in altre fattispecie, ancorché inquadrabili nel medesimo paradigma, l’antecedente causale può anche non identificarsi nella condotta del soggetto chiamato a rispondere, e ciò vale ad escludere l’applicazione il principio della responsabilità colpevole ex art. 27 cost. quale duplice presidio contro imputazioni soggettivamente fondate sul fatto altrui, ovvero oggettivamente fondate su presunzioni di causalità.

Ed infatti, inter alia, nell’orbita del paradigma della responsabilità ex delictu rientrano le fattispecie di cui agli artt. 2047 c.c. circa il danno cagionato dall’incapace siccome imputabile «a chi e tenuto alla [sua] sorveglianza»; l’art. 2048 c.c. in materia di responsabilità dei genitori o dei tutori per il «danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati», dei precettori e dei maestri d’arte per il fatto illecito commesso dall’allievo o dall’apprendista «nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza»; l’art. 2049 in materia di responsabilità dei padroni o dei committenti per gli illeciti commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti; mentre, d’altro canto, si discute di responsabilità oggettiva o semi-oggettiva con riferimento inter alia all’art. 2051 c.c. in materia di danni cagionati da cose in custodia, ovvero all’art. 2052 c.c. in materia di danni cagionati da animale in custodia.

Cio premesso si consideri che dal punto di vista normativo lo stesso art. 2043 c.c. si limita a prevedere che il danno ingiusto, ai fini della sua risarcibilità, sia «cagionato» dal fatto illecito.

In materia di responsabilità contrattuale, invece, il nesso causale tra l’inadempimento e il danno e espresso all’art. 1223 c.c. che stabilisce la risarcibilità del danno, nelle due componenti, eziologiche ed ontologiche, «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta».

Se ne deduce che sul piano della responsabilità civile sono sostanzialmente due le funzioni imputate all’accertamento del nesso eziologico, concernendo sia l’individuazione del soggetto responsabile per il fatto illecito, ancorché commesso da altrui soggetto, ma anche la circoscrizione della conseguenze dannose imputabili al soggetto chiamato a risponderne; a cui corrispondono correlativamente due questioni interpretative vertenti rispettivamente sull'ampiezza delle vicende causative di danno per le quali un soggetto puo essere chiamato a rispondere, e sulla necessita di selezionare quale conseguenze dannose siano comunque imputabili al suddetto fatto illecito.

A tali distinti quaestiones corrispondono due distinti accertamenti eziologici, e dunque due diversi nessi di causa.

Da un lato l’art. 2043 c.c. riguarda la cd. causalita materiale, la cui funzione e quella di stabilire se l’evento sia o meno addebitabile alla condotta materiale di un determinato soggetto.

Dall’altro il combinato disposto di cui agli artt. 1123, 1225 e 1227 comma 1 c.c. definisce il concetto di causalità giuridica, il cui scopo e accertare l’esistenza e l’ampiezza dei pregiudizi riconducibili all’evento dannoso.

Al riguardo e stato ampiamente dibattuto in dottrina la questione dell’applicabilità dell’art. 1223 c.c. alla verifica del nesso di causalità materiale.

La quaestio prende le mosse dal dato testuale dell’art. 2056 c.c. rubricato «valutazione del danno» che proietta la criteriologia individuata all’art. 1223 c.c. nel momento della quantificazione della componente emergente del danno ingiusto, stante che il lucro cessante e valutato con equo apprezzamento in relazione alle circostanze del caso concreto.

L’orientamento pressoché dominante sia in letteratura che in giurisprudenza propende, come si anticipava, per una concezione bifasica del nesso causale nel rito civile, anche in materia di illecito extracontrattuale, che contrassegna la dicotomia tra i concetti causalità materiale e causalità giuridica.

A corroborare siffatta conclusione vi sarebbe anche il dato testuale; in specie l’art. 2043 c.c. che sembra articolarsi in due momenti.

Da un lato infatti si sottolinea il rapporto eziologico tra la condotta dolosa o colposa ed il danno ingiusto, dall’altro il nesso causale tra il danno materiale e quello risarcibile.

Al primo momento concorrerebbe la spiegazione causale nei due momenti della condicio sine qua non e della sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, al secondo la delimitazione del danno risarcibile a quelle componenti che siano conseguenza immediata e diretta del danno ingiusto.

Siffatta chiave di lettura suggerisce sic et sempliciter che l’applicazione dell’art. 1223 c.c. alle ipotesi di responsabilità aquiliana presuppone che sia stato già sciolto l’elemento nodale e decisivo dell’imputabilità del fatto materiale al convenuto in giudizio con conseguente accertamento dell’an del risarcimento.

Se ne deduce che il concetto di causalità giuridica, almeno in materia di illecito extracontrattuale, accede in qualità di criterio di circoscrizione del danno risarcibile in sede di determinazione dello stesso.

Anche in materia di responsabilità ex contractu, tuttavia, è possibile parlare di dicotomia tra nesso materiale e causalità giuridica.

A corroborare siffatta affermazione si consideri l’art. 1227 c.c. il quale, secondo notoria dottrina, costituirebbe expressis verbis, corollario della suddetta dicotomia.

Il primo comma dell’art. cit., infatti, nello stabilire che qualora il fattocolposo del creditore abbia concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito in misura equivalente alla gravità della colpa e all'entità delle conseguenze che ne sono derivate, fa chiaramente riferimento alle ipotesi in cui la condotta del danneggiato e tale da determinare la rottura del legame causale, a monte, tra condotta del debitore ed il danno ingiusto.

In altri termini, quindi, il comma 1 dell’art. 1227 c.c. concerne l’accertamento dell’an del risarcimento, e quindi la relazione materiale tra inadempimento e danno.

Viceversa, il secondo comma, nello stabilire che risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza, si focalizza sulle valutazioni concernenti il quantum del risarcimento, determinando la non risarcibilità di quei danni che non siano direttamente riconducibili all’inadempimento ancorché accertato nell’an, in quanto evitabili tramite la diligenza ex bona fide che anche il creditore deve comunque osservare nell’esecuzione del sinallagma contrattuale.

Al riguardo, e stato precisato in sede di legittimità che «da una lettura sistematica delle norme del codice civile vigente dettate in tema di risarcimento del danno, sembra emergere plesso operativo razionale e coerente, articolato secondo un criterio di consequenzialità in virtù  del quale il legislatore opera una netta separazione tra il momento [strutturale] dell’accertamento della responsabilità e quello [funzionale] dal contenuto della stessa» [387]. 

La suddetta dicotomia è stata ulteriormente sottolineata dalla S.C. in espressione della funzione nomofilattica secondo cui «il problema della causalità si presenta sotto un duplice aspetto: il primo, che attiene al nesso causale fra la condotta del soggetto agente, a lui imputabile a titolo di dolo o di colpa, e l'evento (…); il secondo che, presupponendo integro in tutti i suoi aspetti lo schema ora delineato, attiene alla derivazione causale del danno, di cui si pretende il risarcimento, dall'evento e che e considerato e disciplinato dall'art. 1223 c.c.» [388].  

Orbene in sede di accertamento del nesso di causalità giuridica il criterio pressoché univoco individuato in giurisprudenza è quello della cd. regolarità causale alla cui stregua sono risarcibili i danni i che siano normale conseguenza dell’evento lesivo in base all’id quod plerunque accidit; per converso, sul crinale del nesso di causalità materiale, si riscontra un fervente dibattito dottrinale e giurisprudenziale di cui, in via preliminare, è doveroso contrassegnarne i punti salienti.

Occorre precisare che con la locuzione causalità giuridica in dottrina è stata indicata, soventemente, anche quella porzione della causalità materiale che rileva nella spiegazione eziologica nel caso di specie.

In questo senso si consideri che per causalità materiale, in senso ampio, deve intendersi il rapporto che incorre tra due estremi ricostruito alla stregua di leggi scientifiche universali.

In tal senso si e anche discusso, quindi, di causalità scientifica, intesa quale insieme delle conseguenze fenomeniche che possono ricondursi, sulla scorsa di considerazioni scientifiche, all’antecedente causale di volta in volta assunto.

A tale nozione di contrappone la causalità giuridica sine strictu, ivi intesa come insieme delle conseguenze che, rientrando nell’ambito della causalità materiale, acquisiscono rilevanza sul piano del diritto applicato al caso particolare.

Tali nozioni di causalità risultano complementari in quanto in sede di accertamento del rapporto eziologico il criterio della causalità giuridica viene impiegato con funzione selettiva, e cioé in funzione di discrimen tra quelle cause che sono tali in senso universale, e quelle che invece acquisiscono rilevanza nella spiegazione causale del caso concreto.

In questo senso e stato affermato da autorevole dottrina che la causalità scientifica costituisce elemento endogeno del processo, confluendo nell’ambito dell’insieme di valutazioni su cui il giudice e chiamato a decidere sulla scorta delle considerazioni del consulente tecnico all’occorrenza nominato.

Quindi la nozione di causalità giuridica si configura quale criterio di selezione delle cause che appaiono rilevanti nella spiegazione del caso concreto, sulla scorta delle considerazioni del consulente tecnico.

Orbene il discernimento delle cause giuridicamente rilevanti in relazione al caso di specie, nell’ambito dell’insieme delle cause scientifiche, si snoda attraverso le note modali della consulenza tecnica, nel senso che al consulente e demandata la competenza di selezionare la causa scientifica giuridicamente rilevante individuandola sulla scorta del quadro probatorio.

Alle risultanze di siffatta operazione di discernimento, poi, la spiegazione giuridica del nesso causale potrebbe caratterizzarsi per l’assimilazione in toto della legge scientifica selezionata, come nelle ipotesi in cui l’evento-danno sia costituito da una patologia monofattoriale, si pensi esemplificativamente alla radiodermite, ovvero potrebbe necessitare di un ulteriore temperamento mediante l’introduzione di un criterio fondato su valutazioni di ordine statistico o probabilistico come nei casi di manifestazioni neoplastiche.

Il punto di partenza per l’indagine sul nesso materiale in sede civile è l’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ha dato del combinato disposto di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,  compendiata nella doppia formula del giudizio controfattuale, anche nei casi in cui l’antecedente del rapporto eziologico sia costituito da una serie di condizioni statiche nel tempo, evidentemente in presenza di un aspettativa di azione che invece è stata omessa.

Ciò che occorre chiedersi, a questo punto, quesito che effettivamente costituisce leit-motive di ogni discorso sulla causalità civile, e se ed in che misura tale nozione possa rivendicare un autonomia, prima concettuale, poi normativa, rispetto all’omonima categoria di diritto penale.

La tesi tradizionale sostenuta da una giurisprudenza ancorata al principio dell’unicità del criterio di accertamento del nesso di causalità evidentemente fondato sul combinato disposto di cui agli artt. 40 e 41 c.p., deponeva per la subalternità della causalità civile rispetto a quella penale, orientandosi verso la traslazione diretta ed integrale dei canoni elaborati dalla giurisprudenza della sent. Franzese.

Al riguardo vale la pena precisare che, avendo sottolineato le note di indirizzo della giurisprudenza civile dettate pro tempore che «non [sarebbe] consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi dell’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’esistenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva o in ogni caso colpevole del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica» [390], si riteneva abbandonato, anche in sede civile, il criterio empirico della probabilità statistica in virtù  del quale si proponeva un modello di verifica del nesso causale che operasse in funzione della percentuale probabilistica riscontrata, a favore del criterio processualistico della probabilità logica o certezza processuale.

Siffatte conclusioni, per altro verso, implicavano la traslatio nella sede civilistica della necessita di corroborare la spiegazione causale tramite la verifica aggiuntiva della credibilità dell’impiego della legge statistica al fatto concreto, e cioè di una verifica della correttezza processuale della spiegazione causale imperniata sul parametro dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Senonché, di lì a breve, si assiste, prima nel panorama accademico che in quello giurisprudenziale, ad un ripensamento circa la nozione di causalità civile che conduce allo sganciamento della spiegazione causale dai canoni elaborati dalla giurisprudenza penale, e quindi all’affermazione dell’autonomia concettuale del rapporto causale nel processo civile.

Punto di partenza della teorica, allo stato dell’arte incontrovertibile, è una riflessione in punto di principio sulle caratteristiche e finalità proprie di ciascun ordinamento processuale.

Da questo angolo visuale il parametro dell’oltre ogni ragionevole dubbio non è una regola di giudizio universale, bensì piuttosto necessitata, in vigenza della presunzione costituzionale di non colpevolezza, dalla preminente esigenza di assicurare che l’azione penale si risolva in dubio, pro reo [391].

Nell’ordinamento penale, infatti, il nesso di causalità si ascrive tra i componenti essenziali del giudizio di responsabilità squisitamente personale, ex art. 27, comma 1 cost., che ha portata tipizzante, ridisegnando l’azione in funzione della composizione dello strappo verificatosi nella dicotomia autorità-liberta.

Parimenti l’ordinamento processual-penalistico è ridisegnato ad onta della concezione costituzionalmente orientata di responsabilità, costituendosi quale luogo in cui si realizza la contrapposizione, e si risolve la composizione delle dicotomiche ragioni dell’autorità ed istanze di libertà.

Per converso, ed indubbiamente, il processo civile non risponde alle medesime logiche della responsabilità personale, sia sul piano oggettivo, e cioé di responsabilità per fatto proprio e neppure sul piano soggettivo, e cioè di responsabilità colpevole.

Non a caso è stato precisato in via preliminare che in sede civilistica il nesso causale non risponde a canoni di univocità né strutturale, né funzionale, mettendosi cosi in evidenza una pluralità di casi in cui vige ora una presunzione di causalità a fortiori ratione che onera il debitore fornire la prova liberatoria, e cioè la prova dell’avvenuta rottura del legame di causalità; ora l’oggettività dell’imputazione a priori, e cioè indipendentemente dall’elemento soggettivo.

Significativo e, al riguardo, il giudizio di inammissibilità della teorica dell’univocità della spiegazione causale in sede penale e civile, che la S.C. perviene ad affermare tranchant nella sentenza del 16 ottobre 2007, recante il n. 21619, sulla scorta di un duplice ordine di ragioni.

Sotto il profilo morfologico, due contestazioni in punto di principio vertenti segnatamente sul baricentro della disciplina processuale, e quindi sulla non sovrapponibilità funditus delle figure dell’imputato e del danneggiato; e sulla dicotomica contrapposizione tra puntiformità dell’azione penale ed atipicità dell’illecito civile.

Sotto il profilo funzionale si consideri che mentre la giurisprudenza penale è pervenuta ad un giudizio perentorio di inidoneità della teorica dell’aumento probabilistico del rischio a fungere da criterio di spiegazione del nesso causale, realizzandosi in una surrettizia traslazione dell’elemento tipizzante del danno in quello della condotta, trasformando la struttura del reato causalmente orientato in una fattispecie di pericolo concreto; nell’esercizio dell’azione aquiliana a fortiori non si rilevano simili preoccupazioni, essendo inequivocabilmente imperniata sulla nozione di danno ingiusto.

Sulla scorta di tali premesse la Corte finisce con il corroborare la teorica di una spiegazione causale imperniata sull’id quod plerunque accidit, da cui consegue l’imputabilità di tutte le conseguenze direttamente riconducibili al danno in capo all’autore, o comunque responsabile de iure del fatto, salvo l’interferenza di un fattore, non prevedibile ne controllabile, esterno in grado di spezzare il legame causale.

Letta dall’angolo visuale della teoria della regolarità causale, la spiegazione del nesso eziologico, almeno nel rito civile, pare esigere un soglia di probabilità meno elevata compendiata, secondo la retorica semantica del caso, nei concetti di seria ed apprezzabile possibilità, ovvero di ragionevole probabilità [392].

Ciò precisato, il paradigma della spiegazione causale nel rito civile non può essere correttamente inteso senza puntualizzare del controsterzo effettuato dalle Sez. Un. nella sentenza del 11 gennaio 2008, recante il n. 581, con cui il baricentro della questione viene bruscamente spostato dalla critica in punto di principio, ad una critica in punto di giudizio.

In tal senso viene riesumato il principio di univocità della spiegazione causale e per suo tramite la rievocazione del giudizio controfattuale in sede civile, con conseguente degradazione della regolarità causale a criterio integrativo in funzione di temperamento del nesso condizionalistico.

Ne consegue che la spiegazione del nesso causale nel giudizio civile, ancorché in coesistenza di una varietà di criteri di imputazione, non possa comunque prescindere dall’accertamento di un nesso di causalità materiale, non risolvendosi tale peculiarità in una «modifica [del]le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico».

Siffatta chiave di lettura evidenzia la funzione meramente selettiva del criterio di imputazione che in ogni singola fattispecie assolve al compito di individuare «la sequenza causale da esaminare» ai fini della spiegazione causale, e che, in quanto tale, non assurge a modello di ricostruzione del rapporto eziologico.

Cosi, pur in assenza di valutazione inerenti il profilo soggettivo, la struttura dell’illecito civile mantiene tra i profili oggettivi quegli elementi che nella teoria generale del reato hanno portata tipizzante, e cioè rilevano l’inclinazione lesiva della condotta già sul piano del fatto tipico.

Non a caso nelle fattispecie di illecito colposo ex art. 2043 c.c., ancorché non assumano rilevanza i giudizi di prevedibilità e/o evitabilità dell’evento, non si rinuncia allo specifico legame colposo tra condotta ed evento che presupponendo la violazione di una norma imperativa specifica, quantunque a contenuto precauzionale, finisce con il ridisegnare i contorni del neminem laedere.

Di contro, in presenza di responsabilità oggettiva, si realizza una soluzione specularmente transattiva per cui in rinuncia dell’elemento oggettivo tipizzante, quindi della condotta colposa, il paradigma materiale della fattispecie si arricchisce per la determinazione di un criterio di imputazione unico ed imperativo, sulla scorta di quella che parrebbe configurarsi come una posizione di garanzia.

Ne consegue che a fronte di variegato panorama di rapporti eziologici particolareggiati sotto il profilo degli estremi causali, risolvendosi talvolta in una «concatenazione tra fatti di [diversa] natura», nelle fattispecie di responsabilità oggettiva o semi-oggettiva, quindi quella da danno da attività pericolosa ex art. 2050 c.c. e quelle da cose o animali in custodia ex artt. 2051-2052 cc, ovvero per converso nella responsabilità per inadempimento, risulta prontamente individuata la sfera soggettiva della responsabilità nel soggetto qualificato, e cioè, segnatamente, nel custode o nel debitore.

Tale affermazione va correttamente intesa in quanto, lungi dal circuire l’imputazione a predeterminate categorie di soggetti, nel paradigma dell’illecito semi-oggettivizzato l’imputazione risponde a canoni applicativi di natura fondamentalmente sostanziale, con la conseguenza che di volta in volta occorre individuare chi sia il soggetto che nel caso di specie rivesta una posizione di garanzia, un po’ come avviene in presenza di reati omissivi impropri.

Più specificatamente, si è detto che, in assenza di principi di ius positum che regolino il rapporto causale, anche nel rito civile «le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso (…) rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p».

Se ne deduce che, ancorché fronte di una possibile diversità strutturale dei rapporti causalità, la riaffermazione dell’identità ontologica del nesso causale finisce con il traslare il baricentro della questione sul piano della regola probatoria di giudizio «[vigendo] nel primo la regola della prova oltre il ragionevole dubbio (…) mentre nel secondo (...) la regola della preponderanza dell'evidenza o del piu probabile che non» [393].

L’approdo conclusivo del disegno delle Sez. Un. concerne il giudizio di «di certezza probabilistica» che, al pari del giudizio di attendibilità della legge statistica in sede penale, non puo fondarsi sul mero dato della probabilità quantitativa o statistica, quindi sulla base della frequenza di classi di eventi, bensì esige la verifica del grado di fondatezza sulla scorta dei riscontri probatori, e quindi anche sulla base degli elementi di esclusione di fattori alternativi, e cioè in base a valutazioni di probabilità logica.

dott. Salvatore Tartaro

Questo articolo è stato redatto dal dott. Salvatore Tartaro.

Estratto da "Il danno da radiazioni ionizzanti. Profili giuridici della radioprotezione", pp. 342 - 356,  Salvatore Tartaro, Tesi di Laurea, Trapani, Marzo 2018.

NOTE

[387] v. Cass. civ., sent. 10 ottobre, 2007 n. 21619.

[388] v. Cass. Civ., Sez. Un., sent. del 26 gennaio 1971, n. 174.

[390] v. Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n.4400.

[391] «riconoscere la responsabilità penale anche nei casi in cui la responsabilità è modesta comporta il degradare l’evento a mera condizione obiettiva di punibilità ed il reato di danno in quello di pericolo, con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e garanzia della responsabilità penale», Trib. Palmi, sent. del 11 febbraio 2006. 

[392] Cfr. ex multis Cass. Civ., sent. del 6 febbraio 1998, n. 1286, «(…) in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l'evento, quello della probabilita di tali effetti e dell'idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste anche quando l'opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non gia la certezza, bensi serie ed apprezzabili possibilita di successo»; Cass. Civ., sent. del 27 gennaio 1999, n. 722, «Il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni che egli assume subiti a seguito della mancata impugnazione della sentenza di primo grado non può limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole, ma deve dimostrare l'erroneita della pronuncia in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto».

[393] Cfr. Cass. Sez. Un., sentenza del 11 gennaio 2008, n. 581.

 

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