Le responsabilità per danni da Uranio Impoverito
Incipit
Era il dicembre del 1885 quando il fisico W. Conrad Roentgen comunicò alla comunità scientifica internazionale di aver osservato che i raggi emanati da un ampolla vuota d’aria, attraversata da una corrente ad alta tensione, avevano la capacità di attraversare i corpi opachi[1]; l’anno successivo il fisico francese Antoine Henri Becquerel scopre la radioattività naturale dell’uranio nel tentativo di verificare la relazione tra i raggi X e la fluorescenza.[2]
La coniazione del termine radioattività si deve a Marie Curie che nel 1888, osservando l’eccessiva radioattività di un minerale, il pechblenda, rispetto alle quantità di uranio presenti, ipotizzò l’esistenza di altri elementi naturalmente radioattivi.
In particolare venne isolato un metallo, molto simile al bismuto, a cui fu dato il nome di polonio, in onore della patria della scienziata. Successivamente, in base alle medesime osservazione, nel 1902, i coniugi Curie ipotizzano l’esistenza di un altro elemento, il quale venne isolato e denominato radio.
Nel 1934 viene realizzata, per la prima volta artificialmente, la scissione dell’atomo dell’uranio mediante il bombardamento nucleare[3]; si osservò che la scissione dell’atomo determinava il rilascio di altri neutroni in grado di provocare potenzialmente reazioni a catena e se ne concluse che le reazioni di fissione erano in grado di autoalimentarsi.
Orbene il procedimento di fissione nucleare può essere moderato mediante un refrigerante, principio che sta alla base dei reattori delle centrali termonucleari, ovvero essere incontrollato, determinando il rilascio di un ingente quantità di energia, principio che sta alla base delle cd. bombe atomiche (o nucleari).[4]
Dall’induzione del primo processo di fissione al Trinity test, il primo test nucleare, nell’ambito del cd. Progetto Manhattan, il 15 Luglio 1945, nel desertodi Jornada del Muertonel New Mexico, a 54 Km dalla città di Soccorro, passarono solo undici anni.
Il 6 Agosto 1945, nella mattinata, l’aviazione statunitense sgancia sulla città giapponese di Hiroshima l’ordigno al plutonio codificato “Little boy”; solo tre giorni più tardi il Boeing B-29 Superfortress decollato alla volta di Kokura viene dirottato su Nagasaki; erano circa le 11 del mattino quando il terzo ordigno a fissione nucleare del plutonio, codificato “Fat man”, detona su Nagasaki.
Nel novembre dello stesso anno, a Washington, il presidente Truman e i primi ministri inglese e canadese Attlee e Mackenzie King firmarono una dichiarazione trilaterale sull'energia atomica impegnandosi a procedere con la diffusione di documentazione scientifica a fini pacifici con qualsiasi paese interessato ad uno scambio reciproco.
Nel novembre del 1952, quale risultato del progetto denominato “Operation Ivy”, viene fatta detonare al di sopra dell'atollo di Enewetak, la prima bomba all’idrogeno; l’anno successivo il medesimo obbiettivo viene raggiunto dall’Unione Sovietica.
Nella contrapposizione dei blocchi della guerra fredda, l’esperimento sovietico evidenziò il fallimento strategico della politica di segretezza atomica, oltre che atterrire il mondo costituendo fonte della consapevolezza dello scenario di autodistruzione del genere umano.
Non a caso, solo pochi mesi dopo, l’8 Dicembre del 1953, il presidente Truman, in un discorso alle Nazioni Unite, propone l’istituzione di un’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, aprendo la stagione del collaborazionismo internazionale sulla disciplina della ricerca sull’utilizzazione a scopi pacifici dell’energia nucleare.
Cronologicamente si riconduce il momento dell’inizio della collaborazione alla prima conferenza di Ginevra del 1955, convocata dall’ONU e denominata “Atoms for peace”.
Tra i risultati conseguiti devono annoverarsene almeno due, di importanza fondamentale, la creazione dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) e la fine del regime di segretezza, sostituito, sulla scorta della dichiarazione di Washington, da un regime di condivisione e collaborazione per lo sviluppo dell’energia nucleare ai fini pacifici.
Da questo momento in poi il progresso tecnologico è stato inarrestabile: la prima centrale elettronucleare del mondo era già stata realizzata a Chicago nel 1951, si trattava della più giovane tra alcune centrali nucleari create prevalentemente per scopi militari ed abilitate a produzione di energia per scopi civili, tra cui quella di Mayak, nella regione di Chelyabinsk, alle spalle degli Urali, costruita per produrre plutonio a scopi militari, e tristemente conosciuta per il più grave, benchè meno noto all’opinione pubblica, incidente con rilascio di scorie e fumi radioattivi, nel 1957; la centrale di Calder Hall, la prima centrale commerciale del mondo, venne innaugurata nel 1956 nel complesso nucleare britannico di Sellafield, sulle coste del mar d’Irlanda, nel nord dell’Inghilterra.[5]
Attualmente l’energia nucleare è utilizzata da 29 paesi nel mondo, e rappresenta circa il 13, 5 % della produzione mondiale di elettricità.
La questione dell’accettazione sociale dell’energia nucleare è stata correttamente qualificata come clash of risk culture (U. Beck, 2008), ad evidenziare la relatività culturale della disaffezione verso l’energia nucleare.
Così l’esperenzia di Chernobyl viene valutata differentemente in Italia ed in Francia, conducendo a risultati differenti.
Prescindendo dalle questioni culturali, indubbiamente la circostanza che Francia il 75% dell’energia elettrica proviene dai 58 reattori nucleari in funzione gioca un ruolo determinante nell’approccio politico al problema del nucleare.
In seguito all’incidente di Fukushima in conseguenza del quale furono arrestati 43 reattori, allo stato attuale risultano in funzionamento 427 reattori, ai quali vanno sommati i 67 reattori di terza generazione che secondo l’A.I.E.A risultano in costruzione.[6]
Un caso singolare in cui va riconosciuta la derivazione di una tecnologia civile a partire da una militare è proprio quello dell’energia nucleare.
Ciò emerge nitidamente dalla parziale ricostruzione della storia della radioattività suesposta in cui si nota come a partire dal momento in cui viene indotta la prima la prima reazione a catena autosostentenentesi (Zucchetti, 2008), lo sviluppo della tecnologia nucleare viene assorbita dalla ricerca militare nel coinvolgimento nella corsa contro il tempo «per battere la Germania nazista (...) e salvare così il mondo libero».[7]
Orbene ancorché la ricerca della sicurezza sia stato l’imperativo categorico dello sviluppo del nucleare civile, cosa che non può di certo dirsi per il nucleare militare, è chiaro che non sia stato possibile tagliare perentoriamente il vincolo derivante dal rapporto di filiazione diretto.
Per la politica militare del nucleare, la coesistenza con il nucleare civile divent aun’opportunità da sfruttare, non solo perché la ricerca in ambito civile conduce soventemente a scoperte qualitativamente superiori da poter successivamente applicare alla tecnologia militare, ma anche in vista di un potenziale utilizzo dei prodotti utilizzati nell’industria energetica nucleare.
A tal riguardo è paradigmatica in ambedue i sensi la vicenda del riprocessamento del combustibile esaurito, quale nuova fase del ciclo di gestione del combustibile nucleare finalizzata a ridurre la produzione di scorie, ed impiegata per la produzione di plutonio a scopi militari.
Caratteristica comune della fase di riprocessamento e di quella prodromica di arricchimento dell’uranio è quella di produrre scorie.
Se la materia fissile utilizzata è l’uranio, il prodotto di scarto sarà costituito dal depleted uranium, o uranio impoverito, caratterizzato da un alta densità molecolare e dalla natura piroforica che lo rende congeniale a utilizzi per scopo bellico.
Vale la pena precisare che l’idea di impiegare l’uranio impoverito sia in ambito civile che militare risiede nelle vicissitudini tecniche dello smaltimento di un metallo pesante ed ingombrante, ma anche nel valore d’acquisto estremamente basso.
In ambito civile è stato utilizzato per ottenere il bilanciamento dei punti cardine e delle superfici di controllo degli aeromobili di grosse dimensioni, ma anche per la costruzione di mazze da golf o di accessori per canne da pesca.
Tuttavia è proprio nel settore militare che le peculiari caratteristiche di questa scoria nucleare hanno trovato il terreno di elezione.
Le ragioni che agevolano l’impiego militare dell’UD sono da ricercare su due differenti piani.
Anzitutto si anticipava dell’alta densità e piroforicità che rendono congeniale questo metallo per la creazione di proiettili incendiari da utilizzare contro mezzi corazzati.
Il processo di penetrazione polverizza l’uranio che esplode in frammenti incandescenti con combustione violenta che può raggiungere i 5000 °C nel momento in cui viene a contatto con l’aria attraverso la corazzatura perforata, ampliandone l’effetto distruttivo.
La densità del metallo aumenta le capacità perforanti del proiettile in quando all’impatto con la corazzatura non si appiattisce, come avviene generalmente con il piombo.
Nel rapporto della SAIC titolato «Kinetic Energy Penetrator Enviromental and Healt Consideration», è stato osservato che le caratteristiche dell’uranio impoverito sono comparabili a quelle del tungsteno ancorché sia «venticinque volte più tossico», e pertanto meno preferibile.
Senonché il primo fornitore al mondo del tungsteno è la Cina, la quale non sarebbe certamente un alleato affidabile in caso di guerra, e ciò determina la capitolazione di qualsiasi istanza di sicurezza.
I proiettili all’uranio impoverito[8] vengono utilizzati in scenari di guerra a partire dal 1991, nella quale si stima vennero utilizzate almeno 335 tonnellate di uranio impoverito.
Successivamente, nonostante la notorietà degli effetti nocivi, e dei processi di esposizione, illustrati in un Memorandum del Comando Americano del marzo 1991, è stato ripetutamente utilizzato nel corso delle guerre civili nei balcani, tra il 1994 ed il 2000, e nella guerra in Iraq nel 2003.
Le potenzialità ed il rendimento delle radiazioni ionizzanti ne valsero l’utilizzo in una pluralità di applicazioni pratiche al di fuori del campo energetico, in medicina diagnostica e terapeutica (cd. medicina nucleare), in geologia, in archeologia, nell’industria e persino in agricoltura.
Giova precisare che oggi non è necessario utilizzare elementi naturalmente radioattivi in quanto, tramite il bombardamento nucleare, si può ottenere l’alterazione della composizione atomica di un elemento, quindi la formazione di isotopi radioattivi.
Poichè la radioattività, quale caratteristica fisico-chimica di un elemento, non può essere modificata alcun altro tipo di reazione, i radioisotopi sono frequentemente utilizzati quali traccianti nell’industria[9], in agricoltura[10] e in medicina[11].
Le applicazioni pacifiche delle radiazioni ionizzanti non si esauriscono all’utilizzo di radioisotopi in funzione di traccianti ma prevedono l’impiego di sorgenti radioattive fisse, costituite da sostanze sia sigillate che non.
Anche nell’industria, oltre che in diagnostica, è diffuso l’impiego di procedimenti radiografici e radioscopici per rilevare difetti, incrinature e disomogeneità di macchinari, di serbatoi e di costruzioni navali.
Sorgenti radioattive vengono utilizzate anche nell’ambito della disinfestazione in quanto l’irraggiamento delle larve di parassiti può determinarne la sterilità, tuttavia tali tecniche richiedono l’impiego di sorgenti particolarmente potenti, per cui non sono di uso comune; lo sono, invece, le tecniche impiegate per la sterilizzazione di funghi, o la depurazione di acque sfruttandone la capacità di conduzione conseguente alla radiolisi.
Forti sorgenti di radiazioni sono utilizzati per modificare le caratteristiche dei materiali irradiati, come nel caso della reticolazione o della degradazione dei polimeri, utilizzata nella fabbricazione di particolari materiali polimerici altamente resistenti ai solventi, alle alte temperature ed all’invecchiamento, come i pneumatici delle automobili.
Nell’ambito della pittura, dell’archeologia, della paleontologia, sono frequentemente utilizzate tecniche radiografiche al fine di ottenere informazioni sul supporto, sull’imprimitura, sul colore ed i pennelli utilizzati, ovvero per lo studio di mummie, tessuti organici e altri oggetti.[12]
È evidente che, volendo spostare l’attenzione su un altro aspetto del fenomeno, le probabilità di esposizione dell’uomo a radiazioni ionizzanti aumentano proporzionalmente all’impiego delle medesime nella vita produttiva.
Come si avrà modo di esporre a breve, le conseguenze di tale esposizione, a cui le scienze radiobiologiche ed epidemiologiche si riferiscono con la locuzione «danni»,[13] ancorchè prevedibili nel caso di esposizione a determinate dosi, ciò nel senso che «al di sopra della dose soglia, la gravità della lesione, inclusa la diminuzione della capacità di recupero del tessuto, aumenta con la dose»,[14] rimangono altamente aleatorie nel caso di esposizione a basse dosi.
Non v’è, inoltre, alcuna evidenza scientifica che dimostri l’inefficacia biologica delle radiazioni al di sotto di una determinata soglia, anzi, in modo concorde la letteratura internazionale adotta un modello lineare senza soglia, ciò nel senso che a bassi dosi e bassi ratei di dose il rischio di un danno cellulare irreparabile diminuisce senza mai annullarsi.[15]
Dalle precedenti considerazione possiamo trarre un indicazione di massima: le radiazioni ionizzanti, date le proprie caratteristiche chimico-fisiche, si rilevano di estrema utilità, talvolta insostituibile, in una pluralità di settori dell’industria e sanità, tuttavia riserbano aspetti profondamente critici che inducono un attenta riflessione sulle situazioni di esposizione.
Del resto gli studi di radiobiologia, poc’anzi richiamati per sommicapi, sono concordi nell’asserire che la conseguenza dell’assorbimento dell’energia prodotta da onde o corpuscoli cd. ionizzanti è quella della produzione di un danno cellulare ovvero un danno genetico; da ciò consegue la classificazione delle radiazioni ionizzanti quale agente fisico patogeno e genotossico.
Prevalentemente l’autorevole letteratura in materia di interazione radiazione-tessuto biologico[16] individua un duplice ordine di conseguenze negative possibili che dipendono fondamentalmente e principalmente dall’entità della dose assorbita, secondariamente dal rateo di dose; fattori di rischio questi che vanno, ovviamente, cumulati a quelli generalmente applicati, cd. non modificabili: l’età, il sesso e i fattori cd. genetici, ereditarietà e familiarità.
Per altro verso è frequente imbattersi in classificazioni differenti, sensibilmente orientate ad un concetto di tutela che, esorbitando i limiti di un approccio precauzionale ad interim, si stagni sull’orizzonte della tutela intergenerazionale.[17]
Tra le due tipologie di classificazione quella maggiormente pratica è quella adottata dalla letteratura maggioritaria: l’esposizione alla noxa può indurre fondamentalmente due processi morbosi differenti, uno a breve latenza, a cui ci si riferisce con la locuzione di «effetto deterministico»,[18] l’altro, fondamentalmente asintomatico, di natura aspecifica e probabilistica, denominato «effetto stocastico».
D’altro canto risulta maggiormente esaustiva, anche sul piano radio-biologico, la classificazione adottata dal Polvani secondo cui «i diversi effetti delle radiazioni ionizzanti possono essere raggruppati in quattro classi: effetti precoci, effetti tardivi, effetti di prima generazione, effetti sulle generazioni successive»;[19] e tuttavia sia per ragioni di economia che di convenienza espositiva sarà adottato l’approccio tradizionale della letteratura internazionale maggioritaria.[20]
1. Esposizione ed epidemiologia dell’UD
Tra i modelli teorici adottati dalla ICRP, quello dell’epidemiologia dei minatori riguarda la cd. esposizione interna.
L’impiego militare dell’uranio depleto costituisce un significativo fattore significativo di inquinamento ambientale e di esposizione dell’uomo, specialmente in ambito militare a causa del frequente utilizzo.
Recentemente anche in Italia si è registrata una crescente domanda risarcitoria proveniente da soggetti impiegati nei contingenti italiani di peace-keeping operation in cui è stato impiegato l’uranio impoverito, considerato causa di una serie di patologie contratte dai militari, che ha sollecitato l’istituzione di una commissione ministeriale d’inchiesta – la cd. commissione Mandelli, che è l’unica ad aver ambito alla realizzazione di uno studio scientifico sugli effetti dell’inalazione delle polveri di uranio impoverito – oltre che di tre commissione parlamentari finalizzate ad individuare una soluzione al possibile contenzioso di massa che la vicenda rischia di ingenerare.
I profili giuridici di tale vicenda saranno esaminati più specificatamente nell’opportuna sede, ciò che preme precisare in questa appendice sono le modalità in cui si realizza l’esposizione, e parallelamente gli esisti delle indagini epidemiologiche svolte.
Già nel Memorandum nel marzo 1991 del comando americano veniva sottolineato il rischio di contaminazione che correvano i militari stanziati nel Golfo Persico.
Veniva reso noto, più precisamente, che «l’aerosol di ossido di uranio impoverito formatosi dall’impatto del DU ha un’alta percentuale di particelle respirabili» che aumenta esponenzialmente il rischio di contaminazione in assenza di adeguate misure di protezione.
Ancorché il DU sia considerato, giustamente, un minerale a bassa radioattività, l’inalazione delle polveri, o l’incorporazione tramite le ferite, permettono l’inserimento delle particelle nell’organismo.
Nel quadro globale dell’esposizione, ancorché una buona percentuale venga espulsa via renale o gastrointestinale, residua un accumulo di particelle che possono seguire un variegato percorso biologico, con conseguente interessamento di organi bersagliati nel transito, ed organi interessati dal deposito di radionuclidi.
In ragione del transito biologico, per altro, risultano particolarmente esposti alle radiazioni emesse dalle polveri inalare i polmoni, il fegato, i reni e l’intestino, mentre l’accumulo si registra in dosi significative nei linfonodi, nelle ossa, nel sistema uro-vescicale ed anche nel sistema nervoso.[1]
Si riscontra così una coincidenza tra gli organi a bersaglio interessati nel ciclo globale dell’esposizione e le patologie riscontrate nei soldati stanziati nelle aree in cui è stato sistematicamente usato l’uranio impoverito.
Tali patologie consistono principalmente nel tumore ai testicoli, all’intestino, nelle leucemie ed in alcune forme di linfoma, tra cui il morbo di Hodking.
La correlazione causale generale tra tali danni stocastici e l’esposizione interna all’uranio risulta scientificamente controversa, nonostante l’univocità degli studi in materia.
La controversia si regge su due ordini di ragioni inerenti sia all’incidenza del radon nell’esposizione globale dei minatori, sia sulla non coincidenza della granulometria (Zucchetti, 2007) delle polveri di uranio prodotte nelle miniere oggetto di studi epidemiologici che hanno confermato univocamente la relazione casuale con le patologie suindicate, rispetto alle particelle ossidate originatesi dall’esplosione dei proiettili a base di UD.
Quanto all’indagine epidemiologica svolta nel nostro paese, occorre esaminare prima di tutto il lavoro della Commissione Mandelli.
Si tratta di un’indagine epidemiologica-statistica sull’incidenza delle neoplasie maligne in una coorte di militari campionati sulla scorta di segnalazioni spontanee, che siano stati impiegati in una missione in Bosnia o Kosovo.
Le conclusioni della commissione a riguardo delle neoplasie maligne propendono per una sovrastima del rischio in quanto «emerge un numero di casi inferiore di quello atteso», mentre al riguardo del linfoma di Hodking, ancorché si registri un significativo eccesso del tasso di incidenza «non è stato possibile individuar(ne) le cause», a fortiori in assenza di riscontri circa la presenza di contaminazione da uranio impoverito.
Le prime criticità che conducono all’opinabilità delle conclusioni svolte nella relazione finale della commissione, si riscontrano già sul piano dell’errata individuazione della coorte di riferimento, in quanto l’accorpamento di situazioni di esposizione in condizioni ambientali differenti, senza riguardo delle mansioni assegnate, né del tempo di permanenza nelle aree contaminate abbiano determinato “l’annacquamento” della base statistica, alterata in eccesso.
Inoltre per quel che concerne la popolazione di confronto, estratta a campione dalla popolazione maschile coperta dai registrati dei tumori, presenta notevoli perplessità in fatto di non omogeneità del lasso temporale, stante che la coorte esaminata è stata esposta nel periodo tra il 1995 ed il 2000, mentre i registri tumorali coprivano il periodo tra il 1993 ed il 1997, e di non coincidenza del parametro dell’età.
A corroborare i dubbi sulla metodologia dell’indagine si consideri inoltre la carenza di dati sui militari impegnati nel territorio di Sarajevo, in un territorio che in fatto di dislocazione geografica e dell’entità della contaminazione ambientale, risulta essere quello maggiormente esposto, e su cui risultano essere stati impegnati l’81,8% dei militari affetti da patologie tumorali.
Le indagini condotte dalle commissioni d’inchiesta istituite nel Senato mancano di metodo empirico, e si fondano sulle relazioni dell’audizione di soggetti coinvolti ed esperti qualificati.
La prima commissione d’inchiesta riscontrò l’esistenza «di un rischio significativo per la salute riconducibile all’uranio impoverito (…) circoscritto ai soggetti che hanno potuto inalare l’aerosol che si sviluppa in seguito all’impatto dei proiettili» concludendo per la verosimiglianza dell’ipotesi che riconduceva «una parte dei casi di gravi patologie insorte (…) sia correlabile all’esposizione di fattori chimici, tossici o radiologici presenti in loco»[2]».
La riconduzione al più generale rischio ambientale fa da pendant al suggerimento di un tipo intervento solidaristico assistenziale.
Interessanti sono, sul piano giuridico, le considerazioni conclusive della Commissione d’inchiesta del 2006 che fuor di prova di causalità, ritiene che l’evento sia di per sé sufficiente a «determinare il diritto delle vittime delle patologie al ricorso agli strumenti indennitari (…) in tutti quei casi in cui l’Amministrazione militare non sia in grado di escludere il nesso di causalità».
Gli studi epidemiologi sommariamente richiamate propendono per l’ignoranza sul fattore causale condizionante, o sul riconoscimento di una più generale causa ambientale.
Va osservato, in ogni caso, come nella letteratura internazionale si riscontra un’ampia documentazione in senso contrario.
La nocività dell’UD è stata inoltre confermata da alcuni documenti operativi della NATO in punto di esposizione esterna, finalizzate ad impartire indicazioni di radioprotezione per il maneggio di barre di uranio impoverito usate per il bilanciamento di componenti di navi o aerei; e da altre indicazioni operative impartite dall’Headquarters Department of the Army-Office of the Surgeon General in punto di esposizione interna, che precisavano testualmente il potenziale incremento del rischio di tumori in seguito all’inalazione.
In sostanza la conoscenza del rischio da esposizione alle polveri di uranio impoverito risulta comprovata specialmente dalle documentazioni operative, e corroborata dalle indicazioni sulle misure di protezione radiologica, consistenti nelle maschere con filtri, nelle tute ed occhiali decontaminanti.[3]
Vale la pena precisare che tra le teorie che hanno trovato maggiore successo nella lettura più recente, quella della contaminazione ambientale delle nano-particelle di metalli pesanti e del potenziale tossico gioca un ruolo decisivo nel negare un ruolo causale esclusivo all’uranio impoverito, ed avocarlo nel più ampio rischio della contaminazione ambientale, senza tuttavia negare il ruolo decisivo dell’impiego militare dell’uranio impoverito nella realizzazione di una situazione di contaminazione ambientale, il cui carattere di piroforicità, logicamente, agevola la dispersione nell’ambiente di tale mix dinano-particelle composte tanto dall’UD che dagli altri metalli pesanti frequentemente utilizzati per la fabbricazione di mezzi corazzati.[4]
2. Danni da UD. Natura della responsabilità e competenza giurisdizionale
Alle incertezze scientifiche sulla correlazione causale tra i danni occorsi ai militari impiegati nelle peace-keeping operation e l’esposizione all’UD si contrappone l’orientamento univoco della giurisprudenza in materia che ha riconosciuto la responsabilità del Ministero della Difesa.
La prima sentenza in materia è quella con cui il Tribunale di Roma riconosce tale responsabilità ritenendo provato il nesso causale tra il linfoma di Hodking ed il più generale contesto di contaminazione ambientale, in conseguenza della condotta omissiva consistita nell’aver esposto il militare a sostanze cancerogene senza adottare le misure necessarie a prevenire il rischio di contrarre la grave patologia.
L’iter argomentativo del Tribunale ritiene provata la condotta omissiva, statuendo al riguardo sulla notorietà degli effetti pregiudizievoli per la salute conseguenti all’esposizione alle polveri di uranio impoverito, ancorché assorbito nel più ampio quadro della contaminazione ambientale.
Con sentenza del 17 dicembre 2008, il Tribunale di Firenze ha riconosciuto in capo al Ministero della Difesa, la responsabilità civile per l’omessa predisposizione delle misure di protezione che era tenuto ad adottare conoscendo l’impiego di armi all’uranio impoverito in loco, nonché «la sua pericolosità ed i rischi ad esso collegati».
In tale pronuncia, sulla scorta della relazione del CTU, riconoscendone il ruolo concausale nella più ampia genesi multifattoriale della patologia, viene ritenuto provato il nesso causale tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito ed il linfoma di Hodking.
Le pronunce in epigrafe ricostruiscono evidentemente la responsabilità del Ministero quale responsabilità aquiliana, a carattere omissivo, imperniata sulla sussistenza di una posizione di garanzia ex art. 40 c.p.v c.p., ritenendo provato il nesso di causa sulla scorta di un giudizio di probabilità logica.
Più recentemente è stata paventata la possibilità di ricostruire la responsabilità dello «Stato autore del danno»[1] in termini di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c.
La preferenza per l’azione contrattuale sarebbe corroborata dalla qualifica di dipendenti pubblici dei militari stanziati in tali missioni di pace, ed avallata da una minore onerosità del riparto dell’onus probandi che, come è intuibile sulla scorta delle precedenti considerazioni, porrebbe a carico del ricorrente la prova della sussistenza del rapporto di lavoro e l’allegazione del danno, mentre in capo al Ministero, l’onere provare la rottura del nesso causale, e cioè fornire la prova liberatoria ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Dalla casistica giurisprudenziale in materia emerge nitidamente la prevalenza della qualificazione dell’azione intentata dai militari quale responsabilità extracontrattuale, mentre solo in due circostanze l’azione è stata qualificata come contrattuale.[2]
Vale la pena precisare, per altro, che indipendentemente dalla qualificazione data dalla parte, secondo orientamento univoco della S.C., la natura contrattuale o extracontrattuale deve essere desunta dagli elementi materiali dell’illecito, e più precisamente «la riconduzione della pretesa risarcitoria proposta dal dipendente con riguardo alla lesione della propria salute deve essere ritenuta contrattuale (…) alla stregua della identificazione degli effetti della violazione delle norme attribuibili alla Amministrazione, nel senso che la sua incidenza sulla sola sfera dei lavoratori dei dipendenti ne restringe l’imputazione alla violazione degli obblighi di protezione nel mentre la sua diffusività verso la generalità dei cittadini evidenzia la responsabilità extracontrattuale dell’autore della condotta».[3]
Alla luce di questo orientamento non v’è dubbio che la condotta posta in essere dalla p.a. e consistita nell’omessa adozione delle misure di protezione sanitaria, e non anche nella creazione della contaminazione ambientale, risulta idonea a ledere i militari in relazione alle mansioni affidategli, e non anche la generalità della popolazione, legittimando il ricorso all’azione contrattuale.
Tuttavia, stante il regime di pubblicistico caratterizzante il rapporto di lavoro dei militari, concordemente con l’indirizzo espresso dalla S.C., qualora la domanda sia fondata su atti di gestione del rapporto lavorativo, deve ritenersi sussistente la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo.[4]
dott. Salvatore Tartaro