In fatto ed in diritto: un caso pratico. Sui presupposti per la ricorrenza della fattispecie di Associazione di tipo mafioso e sul delitto di induzione non rendere dichiarazioni o rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria.
Il caso di specie:
Tizio, Caio e Sempronio fanno parte di un’estesa e radicata consorteria criminale dedita al pizzo.
In particolare i tre si occupano ogni settimana di ritirare da tutti gli esercizi commerciali del Comune di Beta la somma di €. 500,00 utilizzando l’intimidazione ed agendo indisturbati grazie ad una diffusa omertà.
Un giorno, giunti al panificio di Menvio, questi si rifiuta di pagare la somma richiesta ed i tre, dopo aver minacciato di incendiargli il locale, vanno via a mani vuote.
Il lunedì seguente Menvio giunge al panificio e notando che il garage era stranamente bloccato decide di chiamare i vigili del fuoco.
Quando questi giungono sul posto e tentano di aprire il garage, si verifica una forte esplosione che distrugge l’intero negozio.
Su denuncia di Menvio i tre vengono arrestati e condotti alla casa circondariale sita nel predetto Comune.
Nel frattempo Tizio e Caio decidono di chiedere il rito abbreviato, mentre Sempronio, estraneo all’attentato dinamitardo in danni di Menvio, decide di proseguire con il rito ordinario.
Un pomeriggio Tizio, pensando erroneamente che Sempronio sarebbe stato citato a comparire come testimone nel processo a suo carico lo avvicina durante l’ora d’aria e, dopo averlo minacciato, lo convince a deporre il falso innanzi al Giudice, prendendosi la colpa di quanto accaduto.
Tuttavia, in ragione della scelta processuale effettuata da Tizio e Caio, Sempronio non sarà mai escusso dal Giudicante.
Ciò nonostante, l’agente della polizia penitenziaria Livio, avendo assistito all’episodio presso la casa circondariale, denuncia l’accaduto all’autorità giudiziaria.
Tizio, dunque, ha chiesto allo scriventi di redigere parere motivato in ordine alla vicenda esposta.
Soluzione proposta:
Il presente parere motivato ha in oggetto la verifica della complessiva situazione di responsabilità penale a cui risulta esposto Tizio.
Per completezza espositiva si rende opportuna una preliminare disamina del quadro normativo di riferimento.
Più precisamente, alla luce dei fatti esposti, occorre esaminare i delitti di cui agli artt. 416 bis c.p., 629 c.p. e 337 bis c.p., gli ultimi dei quali anche nella forma del tentativo punibile ex art. 56 c.p..
Il delitto di associazione di tipo mafioso è stato introdotto dalla L. 13 settembre 1982, n. 646.
Si tratta di una fattispecie di pericolo presunto, posta a presidio dell’ordine pubblico (cfr. Cass. Pen., sent. 16 luglio 2013, n. 30791).
La condotta incriminata dalla norma è la semplice partecipazione dell’agente al sodalizio criminale permanente.
Il cd. pactum sceleris che sta alla base dell’associazione di tipo mafioso può anche essere preordinato al raggiungimento di scopi diversi dalla semplice commissione di reati, in relazione ai quali, quest’ultimi si possono atteggiarsi quali meri strumenti (cfr. Cass. Pen., sent. 22 febbraio 2005, n. 19713).
Gli elementi tipizzanti del sodalizio criminale di cui all’art. 416 bis c.p. attengono essenzialmente al modus operandi dell’associazione.
La nozione di metodo mafioso è individuata al co.3° della citata disposizione incriminatrice, la quale individua tre parametri espressi dalle locuzioni “forza intimidatrice del vincolo”, di cui i partecipanti si avvalgono, “assoggettamento” ed “omertà”.
Per la ricorrenza del requisito della forza intimidatrice intrinseca all’associazione, si ritiene necessario che la compagine criminale la sussistenza di una concreta capacità di intimidazione (cfr. Cass. Pen., sent. 25 luglio 2015, n. 34874) tale da ingenerare nei soggetti verso cui l’azione è rivolta, uno stato di soggezione psichica (cfr. Cass. Pen., sent. 23 aprile 2010, n. 29924).
Ma v’è più che il predetto rapporto causa-effetto si innesti in un ambiente caratterizzato per la diffusa tendenza di rifiuto a collaborare con organi dello Stato (cfr. Cass. Pen., sent. 10 gennaio 2000, n. 1612).
La giurisprudenza ha, inoltre, fatto riferimento alla sussistenza di un requisito implicito costituito dal cd. “controllo del territorio” da parte dell’associazione, riferibile “al controllo della comunità o dell’aggregazione sociale individuabile mediante il suo insediamento nel territorio” (cfr. Cass. Pen., sent. 13 marzo 2007, n. 15595).
La condotta partecipativa esige la sussistenza di un rapporto stabile di organica compenetrazione con il tessuto associativo e postula, dunque, “la messa a disposizione durevole e continua delle proprie energie per il conseguimento dei fini dell’associazione” (cfr. Cass. Pen., sent. 17 marzo 2016, n. 19435).
Il delitto de qua è imputato a titolo di dolo specifico consistente nella rappresentazione e volontà di partecipare al sodalizio criminale consapevole del metodo mafioso, a cui si aggiunge la volontà “di prestare un contributo utile alla vita del sodalizio ed al raggiungimento de degli scopi dell’associazione” (cfr. Cass. Pen., sent. 25 novembre 2003, n. 4043).
Il delitto ex art. 416 bis c.p. è aggravato ove l’associazione abbia disponibilità di armi o di materiali esplosivi.
Alla luce di quanto espresso ci si avvede della ricorrenza, nel caso di specie, degli elementi caratterizzanti del metodo mafioso.
La consorteria criminale a cui appartengono Tizio, Caio e Sempronio, infatti, oltre ad essere composta da un numero imprecisato di partecipanti, risulta radicata sul territorio, esercitando, tramite intimidazione, un controllo su tutte le attività commerciali del Comune di Beta che, da tempo imprecisato, versano periodicamente all’associazione una somma di denaro senza denunciare i fatti alle autorità competenti.
Peraltro, come suggerito dall’episodio dall’attentato dinamitardo in danno di Menvio, l’associazione ha disponibilità di materiali esplodenti di talché ricorre la circostanza aggravante di cui al 3° comma dell’art. 416 bis c.p..
Ciò posto risulta, altresì, che Tizio, Caio e Sempronio abbiano partecipato ad una pluralità di atti estorsivi in danno dei commercianti del Comune di Beta di cui, solo quella posta in essere, per ultimo, in danno di Menvio, esula l’ambito di applicazione del delitto consumato.
Brevemente si consideri che il delitto di estorsione, di cui all’art. 629 c.p., è tradizionalmente allocato nell’alveo dei delitti con cooperazione artificiosa della vittima.
Il paradigma di tipicità, infatti, postula che le condotte minacciose o violenti poste in essere dall’agente si riverberino sulla coartazione della volontà del soggetto passivo il quale viene costretto ad effettuare un atto di disposizione patrimoniale.
Come precisato dalla giurisprudenza, la costrizione è elemento della fattispecie di talché, ove la condotta minacciosa o violenta, non ha prodotto l’esito coercitivo, si verserà al più nell’ambito del tentativo punibile.
Il delitto di estorsione è aggravato, ai sensi dell’art. 629, co. 2 ove commesso da soggetto appartenente ad associazione di tipo mafioso.
A ciò si aggiunga che tale circostanza aggravante può concorrere con quelle di cui all’art. 7 d.L. 13 maggio 1991, n. 203, ora trasfusa, in attuazione della cd. riserva di codice, nel novello art. 416 bis-1 c.p. (cfr. Cass. Pen., sez. Un., sent. 28 marzo 2001, n. 10).
Per quel che concerne il delitto di cui all’art. 377 bis c.p., appaiono opportune le seguenti precisazioni.
Trattasi di un reato di evento (cfr. Cass. Pen., sent. 10 gennaio 2010, n. 5003) posto a presidio dell’interesse alla corretta amministrazione della giustizia, sotto lo specifico profilo della tutela della genuinità processuale di quanti sono chiamati a rendere dichiarazioni innanzi all’autorità giudiziaria (cfr. Cass. Pen., sent. 11 ottobre 1996, n. 2713).
Il delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, si applica ove l’azione sia rivolta verso soggetti che, alla luce delle regole processuali, abbiano la facoltà di non rispondere.
Al fine di stabilire, dunque, l’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice in analisi occorre richiamare l’art. 197, co. 2 c.p.p..
Da tale norma si ricava che, il delitto di cui all’art. 377 bis c.p. si configura solo ove l’azione violenta, minacciosa o corruttiva, in senso lato, sia rivolta a soggetto imputato in un procedimento penale connesso ai sensi dell’art. 12, co. 1 lett. 1), c) c.p.p..
A ciò si aggiunga che, con riferimento al soggetto passivo dell’azione, la norma utilizza la locuzione “chiamato a rendere dichiarazioni”.
In ragione del fatto che Sempronio non ha, effettivamente, deposto il falso innanzi all’autorità giudiziaria, occorre stabilire se i fatti denunciati dalla guardia penitenziaria Livio abbiano rilevanza penale sotto il profilo del tentativo punibile.
Ai sensi dell’art. 56 c.p. il tentativo è punibile solo ove l’agente abbia posto in essere atti univocamente e non equivocamente indirizzati alla commissione di un reato.
Se ne deduce che si appalesa necessario il fatto materiale integri tutti gli elementi di tipicità del delitto ad eccezion fatta per la verificazione dell’evento.
Nel caso di specie, Tizio ha, effettivamente, adoperato un atteggiamento velatamente intimidatorio per costringere Sempronio a deporre il falso ove fosse stato sentito nel processo a carico dello stesso.
Non risulta, di contro, che, nel momento in cui si è verificato il fatto contestato, Sempronio fosse stato già chiamato a deporre e dunque, avesse assunto la qualifica derivante dalla chiamata a testimoniare sicché quanto commesso da Tizio, benché moralmente deprecabile, appare sottratto dalla sfera di punibilità finanche del delitto tentato.
A corroborare la precedente affermazione si consideri che è consolidato, in senso alla giurisprudenza di legittimità, l’orientamento che ritiene configurabile il tentativo in relazione al delitto di cui all’art. 377 bis c.p. “a condizione che il destinatario della condotta abbia già assunto la qualifica di chiamato a rendere dichiarazioni” (cfr. Cass. Pen., sent. 22 agosto 2013, n. 46290).
Alla luce di quanto sin qui esposto si ritiene che Tizio potrebbe essere chiamato a rispondere di partecipazione del delitto aggravato di associazione di stampo mafioso armata, nonché delle reiterate estorsioni in danno dei commercianti del comune di Beta e della tentata estorsione in danni di Menvio.
Le fattispecie estorsive si pongono, evidentemente, in continuazione, ex art. 83, co. 2 c.p., con la partecipazione all’associazione, essendo questa dedita alla riscossione de “pizzo”.
Tizio, tuttavia, non risulta punibile per i fatti denunciati dalla guardia penitenziaria Livio in quanto la sua condotta esula dall’alveo del tentativo punibile.
dott. Salvatore Tartaro